domenica 21 febbraio 2010

MURDER SET PIECES (Id., 2004) di Nick Palumbo

Pensavo di aver visto tutto in quel fantastico – ma a volte anche sconcertante – mondo che è il Cinema, ma mi sbagliavo… mi mancava lui… King of the ridiculous… signori e signore, ecco a voi l’unico, l’inarrivabile, l’inimitabile Nick Palumbo! Questo ragazzotto, quasi quarantenne, dal capello molto cotonato penso possa concorrere con ed Ed Wood – un “must” per tutti gli amanti del trash – ed Uwe Boll – un “somaro” e basta per tutti – al premio come peggior regista della storia…
Cari lettori, come avrete già capito, io sono un amante del genere horror e molto spesso mi capita di tuffarmi con mia grande gioia – ma anche con qualche timore a dir la verità – nel vasto panorama del cinema estremo. È così che ho scoperto esecrabili (sotto)generi che mi hanno entusiasmato come il “rape&revenge” o come il genere “cannibal movie”. Ma, in tutto questo mio “frugare” nei bassifondi cinematografici, mi sono sempre, volontariamente, tenuto a distanza dai cosiddetti “shock movies” ovvero quei film creati, ad hoc, solo per dare scandalo e scioccare il povero spettatore che si appresta a visionarli. Oh dio, a me piace la violenza, e apprezzo molto l’emoglobina rossa sullo schermo cinematografico, ma pretendo almeno una (pseudo)trama che mi faccia venire interesse verso quello che sto vedendo… non amo quei film che sono solo una serie di efferatezze che mettono alla prova anche lo stomaco – d’acciaio sicuramente – dello spettatore più navigato. Però ultimamente, più per curiosità che altro, ho deciso di avvicinarmi a questo malsano mondo ed ho iniziato, la mia scalata verso il sadico più estremo, partendo da Murder Set Pieces (Id., 2004) del già citato Nick Palumbo. Risultato di questa mia prima esperienza? Delusione più totale… in tutti i sensi… sotto il profilo cinematografico, credo sia uno dei film più brutti in assoluto… anzi adesso mi toccherà rivalutare altre nefandezze che avevo bollato come inguardabili. Ma anche sotto il profilo del fattore “extreme” non è andata meglio: tutta la violenza presente – ed è veramente tanta, questo si – è stata veramente innocua, e alla fine tutto si è risolto in un gran sbadiglio continuo durato quasi cento interminabili minuti… e tutto questo è colpa del regista nato a Washington D.C., ben coadiuvato dal protagonista principale però, tale Sven Garrett scaricatore di porto mancato, il quale purtroppo per tutti noi si crede il nuovo Jack Nicholson, almeno a vedere la sua interpretazione… ma non basta urinare in piedi per poter assomigliare a Jack “Torrence” Nicholson.
Un fotografo tedesco neonazista si aggira per le strade di Las Vegas. Nel tempo libero abborda prostitute e le tortura a morte, litiga con cassieri neri di videoteche porno e li fucila e, se capita, se la prende con bambine e ragazze per dare sfogo ad un trauma infantile.
Ok, partiamo subito col meritatissimo martirio della pellicola in questione… inizierei subito citando una frase presente nella copertina del dvd italiano: “il più insostenibile horror mai apparso sugli schermi”, mmm… ci deve essere sicuramente un errore di stampa perché la citazione più appropriata per questa “porcheria” filmica è la seguente “il più insostenibile film mai apparso sugli schermi” e, per nostra sfortuna, non per motivi di cosa esso mostra, ma più semplicemente perché la pellicola di Nick Palumbo è veramente inguardabile. Visto che l’ho tirata subito in causa, parliamo della violenza di tale lungometraggio: ok, non posso negarlo, Murder Set Pieces è violentissimo, sporco, cattivo, eccessivo… ma basta tutto questo per definirlo insostenibile? Purtroppo no. Come ho già detto, in diverse recensioni precedenti, se la tensione latita, e qui dire che latita è un eufemismo, anche la scena più “grandguignolesca” risulta ai più sostenibilissima… certo forse non ai più deboli di stomaco ma dubito che essi guardino pellicole del genere, quindi il problema non si pone proprio. Nick Palumbo è solo (in)capace di mettere in mostra una serie di scene sadiche in stile film porno, ovvero senza nessun nesso logico, senza nessun ritmo, senza nessuna tensione appunto. Ma il problema principale si pone anche in questo ambito: la pellicola dovrebbe essere un insieme di immagini iperviolente che dovrebbero fare la gioia dei cultori del cinema estremo e delle sue più disparate ramificazioni, ma alla fine essa non accontenta nessuno neanche sotto questo aspetto. Analizziamo ciò caso per caso. Gli amanti del sesso violento saranno soddisfatti? Non penso proprio… non credo che bastino un paio di scene di “pecorina violenta” per estasiare tali cultori, senza contare che il protagonista, che sembra un coniglio in calore, ha la faccia di uno che sta sodomizzando un tavolo e che ripete frasi ridicole del tipo: “troia, dimmi cosa senti?”. Ma andiamo avanti… gli amanti dello splatter estremo si possono ritenere soddisfatti da Murder Set Pieces ? Ma quando? Mai… esso non è per niente il film più violento mai realizzato come si è (auto)nominato, anzi, potrei citare al momento almeno cinque lungometraggi molto più insostenibili. E per di più esso è talmente ripetitivo e noioso che andrebbe veramente visto a 2x, anche perché tanto non ascoltando i dialoghi – tra i più imbarazzanti da me mai sentiti – per una volta non si perderebbe davvero niente. Ho visto, sul web, parlare di necrofilia… ma fatevi il piacere... possono bastare una scena di “sesso orale” con una testa mozzata – tra l’altro scena copiata da Alta Tensione (Haute Tension, 2003), il cult d’esordio di Alexandre Aja – e una scena in cui una povera crista muore durante l’amplesso – di noia? – per parlare di necrofilia? Non credo proprio. Ma la spudoratezza di coloro che sono coinvolti in questo progetto non si ferma certo qua, essi citano anche il cannibalismo tra le “colpe” della pellicola in questione… what? Certo, vi è una scena in cui, il serial killer si appresta a “papparsi” una delle sue vittime, ma nulla viene mostrato, tranne il suo primo piano – ridicolo a dir poco – mentre si avvicina alla vittima… mentre l’unica scena cannibale, veramente vedibile sullo schermo, che mi ricordo è quella in cui il protagonista si appresta a mangiare dei resti di un cadavere femminile… tra l’altro tali resti sono veramente inguardabili!
Ma il vero problema di Murder Set Pieces è un altro… anzi, in tutta onestà, sono due… il regista e l’attore principale che interpreta il serial killer. Partirei con Nick Palumbo ideatore, e presente in tutte le vari fasi della realizzazione, di tale scempio di dimensioni colossali. Come già detto il film non ha una vera trama ed è solo un susseguirsi di violenza gratuita… inoltre poi ci sono delle situazioni veramente paradossali del tipo che non è possibile che la polizia non riesca a scovare un assassino che uccide indistintamente sia ragazze a caso sia ragazze che lavorano con lui, di giorno, di notte, in casa o in giro e senza il minimo interesse ad occultare le prove… ma il climax dell’idiozia (in)volontaria si raggiunge quando il protagonista uccide a sangue freddo un commesso di un negozio di film porno davanti a testimoni ma neanche questa sconsiderata azione porta, come sarebbe logico, alle più ovvie conseguenze. Il regista parrebbe ispirarsi ad American Psycho (Id., 2000) soprattutto per la rappresentazione del serial killer: narcisista, palestrato, violento, psicotico e con il “piccolissimo” difetto di odiare tutto il genere femminile. Ma purtroppo le similitudini finiscono qua, perché Palumbo predilige assecondare il suo – inutile – istinto dedito al gore più estremo piuttosto che copiare la caratterizzazione dei protagonisti, il tono e le atmosfere della pellicola di Mary Harron… e in fin dei conti anche la citazione della famosa scena della motosega risulta un’insulsa macchietta. A dare una grande mano al regista americano ci pensa Sven Garrett – chiii??? – uno dei peggiori attori da me mai visto su uno schermo cinematografico, il quale offre alla telecamera il suo fisico da adone, ma niente di più. Esso dà il colpo di grazia ad una pellicola già di per sé ignobile. Il serial killer si aggira per lo schermo grugnendo come un maiale in calore con le braccia allargate tanto da assomigliare a Ninetto, il fidanzato di Tatiana, personaggio creato da Bruno Cirilli. Il culmine del trash dell’interpretazione – ??? – dell’attore tedesco si raggiunge con il suo indimenticabile – e chi se lo scorderà mai… – urlo grugnesco nel momento in cui viene scoperta la sua “camera dei giochi” segreta.
Ma parliamo adesso degli aspetti più interessanti che riguardano Murder Set Pieces, i quali ovviamente non hanno nulla a che fare con la pellicola in sé… e come non potrebbe essere così in effetti? Essi riguardano soprattutto due ambiti, da una parte ci sono le leggende nere riguardanti il film di Nick Palumbo e dall’altra tutte le accuse che si è “beccata” questa idiozia su celluloide. Partiamo con le leggende nere che si sono sparse velocemente sulla rete… in primis, parrebbe che parte del cast si sarebbe allontanata dal set incapace di sopportare tutta quella brutalità presente su di esso, ma non è tutto qua ovviamente. Parrebbe che la polizia si sia presentata più volte sul set a causa delle angoscianti urla durante le riprese. Qua il dubbio che mi pongo è il seguente: ma se ad urlare era il protagonista, non è che la polizia si sia allertata semplicemente perché pensava che ci fosse un cinghiale a zampa libera per Las Vegas? Mi sembra la cosa più logica in effetti. Ma andiamo avanti, parrebbe che un produttore sia stato arrestato perché chi doveva stampare la pellicola ha pensato che si trattasse per forza di uno snuff movie. Ok, basta… non ce la faccio più… come avrete notato ad ogni affermazione ho posto davanti un bel parrebbe… ebbene si… queste sono tutte “cazzate” messe in giro, ad hoc, da sua genialità Nick Palumbo per far pubblicità al suo lungometraggio. Bravo… bravo pirla… è il trucco più vecchio del mondo, non avrà pensato veramente che qualcuno ci potesse cascare? Vabbè, tralasciamo che è meglio. Passiamo alle accuse che questa accozzaglia di ignoranza filmica si è tirata addosso… eccole in ordine sparso: razzismo, antisemitismo, misoginia, pedofilia e, per finire in bellezza, bieco sfruttamento di una tragedia nazionale. Mah... vediamo di analizzare un po’… Murder Set Pieces è razzista? Sinceramente non mi ricordo nessuna scena così razzista da creare scandalo, a meno che sentire frasi del tipo “negro del cazzo” – o qualcosa del genere – sia ancora considerato così sconcertante. Murder Set Pieces è antisemita? Non lo so, il protagonista è sicuramente un neonazista ma questo non penso che conti… anche perché più che qualche grugnito in tedesco mentre il protagonista si “pompa” i muscoli col bilanciere o qualche svastica sul muro non mi ricordo altro. Ok, il nonno del protagonista è stato un grande nazista e lui in qualche sporadica occasione lo esalta… ma non penso che possa bastare questo per parlare di antisemitismo. Anche se il buon Nick Palumbo non ci risparmia, anche in questo delicato campo, una delle sue inutili e stupide provocazioni: infatti tra i credits finali, il regista cita tre produttori, rei di aver rinnegato la pellicola, con il nome di tre gerarchi nazisti. Murder Set Pieces è misogino? Si questo si, ma di certo non più di moltissime altre pellicole in cui la donna viene picchiata e seviziata… in pratica ogni “rape&revenge” sulla faccia della terra. Insomma, niente di così sconcertante. Murder Set Pieces istiga alla pedofilia? Congettura, a mio avviso, molto forzata anche in questo caso. Non c’è nulla che istighi alla pedofilia… anche se in effetti il film ha il “pregio” – onestamente non ho ancora deciso se è un pregio o no – di superare un limite che nessuno aveva ancora avuto il coraggio di oltrepassare: l’uccisione, non solo suggerita, come capita spesso, ma in presa di diretta – e anche in maniera molto cruda – di una bambina. Ma veniamo alla chicca finale, summa del genio dell’inimitabile Nick Palumbo… Murder Set Pieces sfrutta, in modo ignobile, una tragedia nazionale? Certo che si. E qui ho detto tutto. Il caro regista americano ha la brillante idea di inserire nella sua pellicola, in modo arbitrario e completamente ingiustificato, scene di repertorio tratte dalla tragedia americana per eccellenza, l’attentato alle torri gemelle… ma perché Nick? Perché?
Non riesco veramente a salvare niente di questo film… ci ho pensato e ripensato… ma non ci riesco proprio. Quindi non mi resta che sconsigliare a chiunque Murder Set Pieces. Non credo che esso possa interessare neanche gli amanti del trash più estremo. A onor di cronaca, sottolineo la presenza di due personaggi cult del cinema americano: ad interpretare la parte di un commesso di un negozio pornografico vi è Tony Todd indimenticabile interprete della serie "Candyman", mentre in quella di un meccanico nazista vi è Gunnar Hansen che era colui che si nascondeva dietro la maschera di carne umana di Leatherface nel cult Non aprite quella porta (The Texas Chain Saw Massacre, 1974) di Tobe Hooper. Anche se in tutta onestà penso siano pochissime le persone che l'avrebbero riconosciuto senza la sua amata maschera e senza la sua altrettanto amata motosega. Conclusione: ammazza che cagata.

lunedì 15 febbraio 2010

AVATAR 3D (Id., 2009) di James Cameron

James Cameron è un ottimo regista e pellicole come Aliens – scontro finale (Aliens, 1986), The Abyss (Id., 1989) e Terminator 2 – il giorno del giudizio (Terminator 2 – Judgement Day, 1991) lo hanno eletto RE incontrastato del genere fantascientifico. Ma è altrettanto indiscutibile che il regista canadese è un grandissimo “furbacchione” che sa bene quello che vuole la gente e, soprattutto, sa come darglielo: non è un caso, infatti, che i due film che hanno incassato di più nella storia del cinema sono entrambi suoi, fruttando più di 4 miliardi di $. Se nel caso di Titanic (Id., 1997) tale successo era più che aspettabile grazie a diversi fattori, primo dei quali la presenza del Teen-idol del momento Leonardo DiCaprio – mi ricordo di una ragazzina che andò al cinema 73 volte pur di vedere il suo idolo – ma anche grazie ad una melodramma d’amore “universale” e ad effetti speciali – come sempre nei film di James Cameron – che definire all’avanguardia è poco, gli stratosferici incassi, in tutto il mondo, di Avatar 3D (Id., 2009) mi hanno sorpreso assai. Con questo non voglio dire di aver mai pensato, anche solo per un momento, che la pellicola potesse essere un flop, non sono così sprovveduto, ma sinceramente non mi sarei mai aspettato che essa potesse diventare il film con il più alto incasso di tutti i tempi. I miei dubbi erano fondati soprattutto su due motivi. Il primo è che la fantascienza – mi riferisco a quella più “pura” –, pur essendo un genere che non muore mai, ai botteghini non ha mai fatto “sfracelli”: infatti nella classifica degli incassi di tutti i tempi oltre ad Avatar 3D, nei primi 30 posti, sono presenti una manciata di pellicole fantascientifiche come i vari Star Wars ed E.T. – l’extraterrestre (E.T. The Extra-Terrestial, 1982). Il secondo motivo riguarda l’assenza di un attore di grido nel cast: purtroppo è fatto noto che, molto spesso, basti il nome di una star hollywoodiana per garantire il “boom” al botteghino a pellicole magari anche mediocri o addirittura pessime. È, a mio avviso, molto interessante fare delle considerazioni sul cast della pellicola di James Cameron: esso è un insieme di “nuove leve” che, grazie a tale clamoroso successo, potranno finalmente fare il botto e “vecchie glorie” – più o meno… – cadute in disgrazia che magari riusciranno a rilanciare la loro carriera. Tra i primi impossibile non citare i due protagonisti. Sam Worthington che prima di Avatar 3D lo si potrebbe ricordare solo per Terminator salvation – l’inizio della fine (Terminator Salvation, 2009) – anche se onestamente, pur essendo uscito molto prima, ho dei dubbi che esso sia stato girato effettivamente prima di Avatar 3D visto i lunghissimi tempi di realizzazione della pellicola di James Cameron – e che invece, per il 2010, ha già in cantiere tre lavori cinematografici fra cui Scontro tra titani (Clash of the Titans, 2010) possibile sorpresa al botteghino di quest’anno. A Zoe Saldana è andata ancora meglio: per lei, nota al grande pubblico solo per la sua partecipazione all’ultimo Star Trek (Id., 2009) e piccolissime parti in altri film, sono ben quattro le pellicole in lavorazione per il 2010 più il sequel del film di J.J. Abrams già annunciato per il 2012. Per quanto riguarda le vecchie glorie, vorrei partire da Sigourney Weaver che dopo un periodo di appannamento sta per tornare alla grande con sei film tra 2010 e 2011 tra cui si vocifera – speriamo… – Ghostbuster III. Le altre due vecchie glorie, cadute più o meno in disgrazia, che sicuramente avranno dei vantaggi dal grandissimo successo di questo lungometraggio sono Giovanni Ribisi e la “tamarrissima” Michelle Rodriguez. Non bisogna stupirsi di tale fatto, basti pensare a tutti gli attori “graziati” dall’incredibile cinefilia di Quentin Tarantino: primo fra tutti, l’ex “ammalato” di febbre del sabato sera, John Travolta.
Ma veniamo al film…
Jack Scully è un ex marine costretto sulla sedia a rotelle. Grazie agli esperimenti portati avanti dalla dottoressa Grace Augustine per Jake si presenta l’opportunità di riprendere l’uso delle gambe. Sully sbarcherà su Pandora, un pianeta dove la mancanza di aria costringe gli umani a trasformarsi in Avatar, ibridi tra gli umani e i Na’vi, in cerca di minerali preziosi.
Avatar 3D è un film che farà, indubbiamente, molto discutere e questa volta non per i temi trattati come capita nella maggior parte delle volte in cui una pellicola diventa un caso. Il lungometraggio di James Cameron farà discutere soprattutto per le sue qualità intrinseche: ai più esso potrà apparire come uno spettacolare intrattenimento visivo con il nulla intorno, ma io sono qua per dimostrarvi il contrario. Il film è stato il primo ad essere girato in “3D Fusion Camera”, un tipo di cinepresa digitale ad alta definizione 3D alla quale Cameron stesso, insieme a Vince Pace e Rob Legato, ha dedicato 6 anni di sviluppo. Molti sono contrari, tra cui io stesso, a considerare la tecnologia come mero strumento che debba salvare la mancanza di idee o l’incapacità di raccontare storie, ma non credo che questo possa essere collegato alla pellicola del regista nato in Canada, la cui trama è innegabile che sia quanto di più basilare si potesse realizzare ma comunque credo che essa, d’altro canto, risulti piacevole e non annoi, e questo per una pellicola di quasi tre ore non è poco. Inoltre sono convinto che, alla fine, il 3D è solamente uno specchietto per le allodole: certo lo spettatore, inizialmente, viene preso dalla meraviglia ma dopo un po' si abitua e si immedesima nella storia. Se la storia è noiosa, rimane noiosa anche in 3D. Ma come dicevo in precedenza non è questo il caso di Avatar 3D, il quale ha parecchi spunti interessanti che si possono sviluppare.
Ok! Partiamo dalla trama: essa è sicuramente lineare al 100% e forse è un po’ troppo debitrice verso fonti storico/letterarie – Pocahontas – e, anche, cinematografiche – Balla coi lupi (Dances with Wolves, 1990) e L’ultimo samurai (The Last Samurai, 2003) – però, grazie agli effetti speciali all’avanguardia, sa come coinvolgere lo spettatore. Qua si potrebbe aprire una discussione sull’eticità di basare una pellicola, quasi esclusivamente, sul potere delle immagini e non sullo svolgersi dell’azione: io credo che è vero che un prodotto cinematografico è formato da più elementi, i quali si amalgamano per cercare di ottenere il meglio possibile, ma è innegabile che, con il passare degl’anni, le immagini sono diventate sempre meno “indispensabili” – passatemi la provocazione – e si sono sempre più asservite alla storia. Le immagini sembrano imprigionate in una gabbia dorata: esse continuano ad essere il centro nevralgico di un film ma non ne sono più sua massima espressione. Ma non è stato sempre così, basti pensare ai film delle origini, quelli muti, in cui – ovviamente – le immagini erano tutto. In un certo senso, è come se Avatar 3D cercasse di riportare la componente visiva ai suoi albori, ed è per questo che considero la pellicola di Cameron una sorta di “ritorno al futuro”: attraverso effetti speciali di ultima generazione, il regista canadese ci riporta alla preistoria del cinema. Elevandosi, qualitativamente, ad un altro livello, è possibile portare l’esempio di Terrence Malick: nei suoi film, egli ha sempre messo in primo piano la componente visiva delle sue pellicole, come non ricordarsi della magnificenza delle immagini de I giorni del cielo (Days of Heaven, 1978), definito da molti, più che meritatamente, il film a colori più bello mai realizzato… rimanendo sulla filmografia del regista texano è possibile riscontrare molte assonanze tra il lungometraggio di James Cameron e il suo The new world – il nuovo mondo (The New World, 2005). In primis, sicuramente la storia narrata… non è un’eresia definire la vicenda di Avatar 3D come una sorta di “Pocahontas del futuro”, molto effettivamente hanno in comune le due trame dei film citati: lo straniero accettato dal nativi del luogo, l’innamoramento corrisposto con la figlia del capo, l’indecisione del protagonista da che parte sia più giusto stare e tante altre situazioni. Ma la similitudine che più mi ha colpito è la rappresentazione della Natura e il rapporto che istaurano i nativi con essa: il rapporto simbiotico/armonico, di profondo e religioso rispetto, vissuto con la sacralità della natura è del tutto evidente. È un contatto spirituale, fisico, materiale: la natura viene toccata, respirata, ascoltata nella sua totale immersione dei sensi e dei corpi. Emblematica in questo senso è, in The New World, la sequenza in cui Pocahontas mima il canto e le movenze degli uccelli, dove “gioca” ma anche esprime la sua appartenenza a quella entità che è fonte di vita, di cultura, di anelito religioso. Mentre, nel lungometraggio di Cameron, il rapporto di perfetta simbiosi tra i Na’vi e la natura è esemplificato dal fatto che essi possono comunicare con gli animali del loro pianeta stabilendo un legame tra la loro treccia e il sistema nervoso dagli animali. I Na’vi, come i nativi d’America, venerano Madre Natura – o la sua corrispettiva – che viene definita “Eywa”. Essa è in grado di poter avere una connessione con tutte le cose e gli esseri viventi di Pandora.
Con tutte queste mie riflessioni non voglio esaltare eccessivamente il film di James Cameron perché comunque ha dei difetti evidenti… in primis è evidente che la storia da esso narrata è molto banale, anzi direi perfino scontata: fin dal primo si sa benissimo come dove andrà a parare la vicenda… sappiamo chi alla fine vincerà… non esiste nessun elemento sorpresa… ma ripeto che la semplicità non è, per forza, un fattore negativo. Una semplicità che ha toccato anche i protagonisti di tale pellicola, infatti un altro aspetto che è stato messo alla berlina sul web è la caratterizzazione dei personaggi, definita su internet “senza una minima sfumatura" e si faceva riferimento a personaggi "tagliati con l’accetta”. Questo è innegabile, ma tutti coloro che hanno posto questa questione hanno glissato sul fatto che, molto spesso, questo è un “male” necessario: chiunque abbia un minimo di conoscenza nel campo dello “scripting” sa che il principale intoppo in cui uno sceneggiatore può incorrere è quello di mettere troppa “carne sul fuoco”, rendendo il film troppo evasivo e faticoso da seguire per lo spettatore. Sono convinto che se il regista canadese avesse arricchito i personaggi oltre una caratterizzazione basilare, avrebbe causato un’eccessiva complessità della vicenda – creando una serie di sottotrame fuorvianti –, facendo perdere ad Avatar 3D quella semplicità che è alla base di una pellicola del genere.
Il film in questione, come ogni lungometraggio che si rispetti ha, al suo interno, un messaggio. Il messaggio che Avatar 3D vuole lanciare è il classico avvertimento ecologista; esso è molto in voga in questi anni nel Main Stream… come dimenticare – per demeriti ovviamente… – il dimenticabilissimo Ultimatum alla terra (The Day the Earth Stood Still, 2008), remake del cult di Robert Wise. Nel rifacimento la terra deve essere completamente “disinfestata” dal genere umano, colpevole di aver quasi “ucciso” il suo stesso pianeta a causa della propria stupidità. Il messaggio in sé è innegabile che sia alquanto banale e se devo essere del tutto sincero lo definirei molto demagoga e populista, però il merito di James Cameron è stato quello di inserire questo suo pensiero in una cornice spettacolare: uno straordinario contenitore così coinvolgente da far risultare credibile qualunque tipo di messaggio egli avesse deciso alla fine di propinarci.
Come vi ho detto in precedenza, la pellicola di James Cameron ha fatto discutere – e lo farà ancora molto – soprattutto per il suo rapporto con la religione. Il quesito che si sono posti molti giornalisti, esperti di cinema, religiosi stessi, è il seguente: di quale religione è Avatar 3D ? E come vedremo in seguito le risposte sono molte e disparate. Secondo alcuni, Avatar 3D presenta “un’apologia del panteismo, una fede che rende Dio uguale alla Natura, e chiama l’umanità a una comunione religiosa con il mondo naturale”. Per la religione panteista Dio è tutto. È innegabile che questa visione religiosa è molto sfruttata ultimamente da Hollywood, gli stessi nativi d’America in The new world – il nuovo mondo di Terrence Malick avevano una visione panteista: il motivo di questo “successo” del panteismo non solo ad Hollywood ma anche tra la gente comune americana è dato dal fatto che esso “apre la strada a un’esperienza del divino per la gente che non si sente a proprio agio con la prospettiva scritturistica delle religioni monoteistiche”. A questa interpretazione hanno replicato diversi osservatori: Jay Michaelson, per esempio, ha corretto l’interpretazione di panteismo per Avatar 3D, parlando invece di “visione unitaria dell’Essere”, inoltre “I panteisti non pregano, i panessenzialisti sì, come avviene in Avatar 3D”. Dall’Oriente arrivano interpretazioni ancora più “teologiche”. Il quotidiano “Hindustan Times” ha ospitato una recensione in cui nei personaggi alieni che abitano Pandora, i quali “sono di colore blu, non molto diversi dalle immagini popolari di Shiva”, può essere riconosciuta una delle principali divinità induiste. E il cristianesimo, è assente da Avatar 3D ? Mark Silk, nel suo blog rintraccia il nome “cristiano” di un personaggio del film: Grace Augustine – il nome del personaggio interpretato da Sigourney Weaver –, che per l’autore fa riferimento al concetto cristiano di “grazia”: infatti, sarà proprio Grace a spiegare al protagonista, l’ex marine Jake Sully, i significati nascosti del mondo di Avatar 3D, come quello di “rinascere due volte”, che Silk rilegge cristianamente secondo il dettato evangelico dei “born again”. Il dibattito, come si vede, è più aperto che mai.
Come ultimo aspetto, mi preme molto analizzare il 3D. Molti considerano questa tecnica come un fuoco di paglia, io spero di no… a me questa “vecchia innovazione” (i primi film in 3D sono addirittura degli anni ’20) piace un sacco. In 3D ho visto San Valentino di sangue 3D (My Bloody Valentie 3-D, 2008) e Viaggio al centro della terra (Journey to the Center of the Heart, 2008) rimanendo colpito dalla tridimensionalità di queste due pellicole – peccato che non fossero proprio dei capolavori – ma devo dire che Avatar 3D mi ha convinto di più, non tanto per la qualità del 3D, che comunque è superiore, ma per il suo utilizzo: una tridimensionalità epurata da ogni sua componente spettacolare o sorprendente. Il successo di Avatar 3D lo si deve ad una trama che non si assoggetta al 3D… dimenticate oggetti che vi vengono banalmente addosso… perché la tridimensionalità del lungometraggio del regista canadese la si deve apprezzare di più proprio perché non ha lo scopo di “divertire” lo spettatore – è per questo, credo, che molti sono rimasti delusi – ma ha il compito di far sembrare ancora più vasto – e coinvolgente – il meraviglioso mondo di Pandora… e in questo riesce benissimo.
Non posso che consigliare la nuova pellicola di James Cameron… soprattutto per chi vuole passare quasi tre ore di spensieratezza tra vari “ooooohhhhh” di gente stupita… perché è innegabile che Avatar 3D stupisce per la sua perfezione tecnica: è impossibile non rimanere affascinati dalla cura messa dal regista in ogni minimo particolare. Conclusione: yes, it’s a fabolous world.
PS: per quanto riguarda la parte della recensione in cui ho analizzato la religione di Avatar 3D, mi sono basato, in parte, su un articolo apparso su “l’osservatore romano".

martedì 9 febbraio 2010

OH, MIA DEA! – THE MOVIE (Aa! Megami-sama gekijouban, 2004) di Hiroaki Aida.

Questa volta ho deciso di cimentarmi in un campo che non è propriamente il mio, ovvero quello dei lungometraggi animati. Non è che non mi piacciono i “cartoni animati” è solo che non ho mai preso in considerazione l’idea di interessarmi seriamente ad essi. Comunque visto che con il mio blog vorrei riuscire a toccare tutti i temi – e i generi – del mondo cinematografico, ho deciso di accettare la sfida: proverò a fare la recensione di un film d’animazione. Parlo di sfida non impropriamente, anche perché ho deciso di recensire un film che è, più o meno, uno spin-off di una serie di anime, e quindi per essere compreso appieno forse richiederebbe la conoscenza di avvenimenti che io non ho o almeno ho solo in parte. La scelta è ricaduta su Oh, mia dea! – the movie (Aa! Megami-sama gekijouban, 2004) di Hiroaki Aida, il motivo di questa decisione è dettato dal fatto che le vicende narrate dal manga creato nel 1988 da Kosuke Fujishima mi hanno sempre affascinato. La serie tratta di un gruppo di divinità che vengono a contatto con la vita sulla Terra, essa inizialmente era incentrato sulle relazioni sentimentali di quest’ultime ma successivamente l'opera si è focalizzata sull'analisi degli aspetti mistici della vicenda e sull'azione: Kei’ichi Morisato è un ragazzo dal cuore puro perseguitato dalla sfortuna. E proprio per questo motivo viene scelto da Yggdrasil, il sistema computerizzato del Paradiso affinché possa esprimere un desiderio, che lo possa ripagare di questa sua incredibile sfortuna. Belldandy, una bellissima dea, viene quindi spedita sulla Terra. Alla richiesta, da parte di quest’ultima, di esprimere un desiderio, Kei’ichi, ancora confuso e credendo che sia tutto uno scherzo, esprime il desiderio di avere Belldandy vicino a sé in eterno. Da questo momento in poi per i due protagonisti inizieranno una serie di avventure infinite. Molti dei contenuti di “Oh, mia dea!” derivano dalla mitologia nordica, la quale fa riferimento alle credenze pre-cristiane e alle leggende dei popoli scandinavi, questo lo si può capire anche dai nomi delle protagoniste: Urd e Skuld, i cui nome derivano da quello di due delle tre Norme. Un altro esempio è il nome del regno da dove arrivano le Dee, Yggdrasil, che nella mitologia norrena è l’albero cosmico che sorregge con i suoi rami i nove mondi che costituiscono l’intero universo.
Il film Oh, mia dea! – the movie, pur essendo una storia originale ed indipendente, si prefigura come possibile sequel sia della serie di manga che di quella di anime prodotta, successivamente, nel 1993. La vicenda prende le mosse dalla terza primavera da quando Belldandy e Kei’ichi hanno iniziato la loro convivenza.
Colpevole di aver tradito il regno di Yggdrasil, il dio Celestin è rimasto prigioniero sulla Luna per secoli. Liberato dalla fata Morgan le Fey, Celestin si dirige sulla Terra, per ricongiungersi con l'allieva di un tempo, Belldandy. Nel frattempo, però, la ragazza si è fidanzata con l'umano Kei’ichi, e per riprenderla con sé Celestin è costretto a cancellarle la memoria. Manovrando Belldandy per i suoi scopi, Celestin minaccia di sconvolgere gli equilibri della Terra e di Yggdrasil.
È molto difficile recensire una pellicola del genere soprattutto perché non ho le conoscenze per giudicare la componente tecnica del lavoro svolto dalla “Anima International Company”: a me i disegni animati sono sembrati ottimi però onestamente non so… magari un esperto dopo vi dice che è sono pessimi. A mio avviso l’animazione negli ultimi anni ha fatto veramente passi da giganti, in questo film ho apprezzato particolarmente le varie animazioni del cielo, le quali risultano veramente pulite e particolarmente dettagliate… ma d’altra parte penso che tutta la pellicola sia visivamente magnifica. Ad essere proprio pignolo, la cosa che non mi è piaciuta di Oh, mia dea! – the movie è stata la rappresentazione del centro operativo del Paradiso… l’ho trovata troppo futuristica… con questo computer gigante che rappresenta una specie di albero. Allo stesso modo non mi sono piaciuti le scene in cui la rete cibernetica del Paradiso è sotto attacco da parte del virus creato da Celestin: queste scene realizzate con animazione CGI, oltre ad essere molto confusionarie – tanto da non capire cosa stia succedendo veramente –, sono anche troppo “virtuali” e stonano nettamente con la “celestiale” – termine adatto… – grazia delle altre immagini del lungometraggio animato. Anche se spulciando nel web, ho potuto appurare che molti esperti hanno invece esaltato questa miscela di animazione tradizionale e grafica CGI… io, come ho già detto, non sono d’accordo… ma il mio non è un giudizio tecnico, io non giudico la qualità della grafica CGI che può anche essere ottima… a me non è piaciuta, per niente, la rappresentazione, realizzata in computer grafica, del sistema di difesa del Paradiso.
Tessendo un discorso sulla trama invece, essa non mi è dispiaciuta affatto, anche se alcuni amici più esperti di me, per quanto riguarda questa serie animata, mi hanno espresso un giudizio non troppo positivo: essi la hanno giudicato come una pellicola che nulla aggiunge e toglie alle vicende “originali” del lavoro di Kosuke Fujishima… praticamente me ne parlavamo come un’avventura di non particolare importanza. La trama non è che una sorta di “prova del fuoco” del rapporto tra Kei’ichi e Belldandy. Una prova dal risultato scontato ovviamente. Guardando invece nella “rete” ho scoperto commenti molto diversi: tantissimi fans esaltano senza mezzi termini questo lungometraggio, giudicandolo un vero capolavoro. Come dicevo in precedenza, anche a me è piaciuto Oh, mia dea! – the movie perché, soprattutto, è riuscito a coinvolgermi fino in fondo pur non conoscendo quasi nulla ne della storia precedente ad esso ne dei personaggi principali… certo che per comprenderlo appieno servirebbe, forse, conoscere bene il mondo creato dal manga di Kosuke Fujishima e aver visto i cinque OAV precedentemente tratti da esso.
Nelle pellicole di animazione giapponesi è innegabile che le musiche sono una componente determinante di esse. Le canzoni e le colonne sonore vengono create appositamente per le varie pellicole animate e questo ci fa capire anche quanta importanza hanno in Giappone i cosiddetti “cartoni animati”. La cura e la qualità delle canzoni e delle musiche fanno si che esse non abbiano nulla da invidiare alle normali produzioni discografiche, anche se bisogna tenere conto del fatto che si tratta di musica nata per abbinarsi ad una animazione e quindi nata con lo scopo di catturare il "feeling" di quello che si vede sul video, per tradurlo in musica. La musica di Oh mia dea! – the movie realizzata da Nobuo Uematsu – uno dei più grandi compositori giapponesi contemporanei conosciuto soprattutto per il suo lavoro nel campo dei videogames… sue infatti sono quasi tutte le splendide musiche dei vari episodi della serie “Final Fantasy” – e da Shiro Hamaguchi – il creatore di quasi tutte le musiche dell’anime tratto da “Oh, mia dea!” – è eseguita dalla Fisarmonica di Varsavia e ben si adatta a tutte le varie situazioni del cartone.
Non posso che consigliare vivamente questo lungometraggio animato a chiunque piacciono i cartoni giapponesi e non solo a chi conosce il manga da cui è tratto. Sono convinto che molte persone che vedranno Oh, mia dea! – the movie non potranno non avere la tentazione e la voglia di avvicinarsi al lavoro di Kosuke Fujishima o agli anime da esso tratto… io l’ho avuta, e infatti mi sono già comprato il volume uno del fumetto. Conclusione: visione celestiale.

martedì 2 febbraio 2010

DEVILMAN – THE MOVIE (Debiruman, 2004) di Hiroyuki Nasu

Dopo la recensione sulla trasposizione cinematografica live action del manga giapponese “Lupin III”, eccone una tutta nuova su una pellicola, ancora live action, tratta da un altro famosissimo manga giapponese, “Devilman”, creato nel 1972 dal grandissimo Go Nagai, autore di altri personaggi noti come “Goldrake” e “Mazinga”. L’unica affermazione giusta da fare è la seguente: un’opera cult come il fumetto originale avrebbe meritato maggiore rispetto e sicuramente non uno scempio del genere… Devilman – the movie (Debiruman, 2004) è di sicuro una trasposizione che definirla indegna è poco… peccato, perché il lavoro di Go Nagai ne offriva di materiale interessante: esso è a mio avviso uno delle migliori storie horror illustrate. La pellicola ha vinto, inspiegabilmente, il premio come “Migliori effetti speciali” all’Asia-Pacific Film Festival, ma, per fortuna, come – meritatissimo… – rovescio della medaglia essa si è aggiudicata anche il poco ambito premio di “Peggior film giapponese del 2004”… giustizia è fatta. Devilman – the movie è l’ultimo film diretto da Hiroyuki Nasu già malato di cancro durante le riprese e morto l’anno seguente all’età di soli 53 anni… R.I.P. Nonostante la mamma mi ha spiegato che non si dovrebbe mai parlare male degli assenti, la mia passione cinematografica mi ha insegnato, a sua volta, che ai morti si deve solo la verità… perciò caro Hiroyuki Nasu purtroppo ti devo proprio dire che hai realizzato una “porcata” di dimensioni inimmaginabili e forse inarrivabile per qualsiasi altro (inetto) regista tuo pari… R.I.P. lo stesso.
La storia per chi non la conoscesse racconta la vita di Akira Fudo, ragazzo che vive in casa di una sua compagna, Miki, dopo la morte dei propri genitori. Il ragazzo ha un rapporto di forte amicizia con Ryo, uno strano ragazzo il cui padre è stato trasformato in demone durante degli scavi che hanno riportato alla luce una tomba in cui vi erano i resti congelati di alcune entità demoniache. Ora i demoni, primordiali padroni della terra, vogliono riconquistare ciò che prima era loro e lo fanno utilizzando gli umani come degli involucri in cui vivere in simbiosi e trasformando quest’ultimi in esseri mostruosi. Anche Akira viene posseduto da un demone trasformandosi in Amon, una delle massime autorità dei demoni, ma egli, a differenza di tutti gli altri, riuscirà a mantenere un qualche cosa di umano – l’anima – e si imporrà come missione quella di difendere Miki da tutto il male che la circonda. La lotta tra il bene e il male ha per l’ennesima volta inizio…
Mi è veramente difficile fare una recensione decente di un film così indecente. Vi dico subito che delle quasi due ore di visione non sono riuscito a trovare anche un solo minimo particolare salvabile. Niente, vuoto, nulla assoluto.
Partiamo da un confronto tra movie e manga… l’approccio della pellicola è stato sbagliatissimo. Nulla è rimasto dell’atmosfera originale: i toni oscuri, il soffocante presagio di sciagura che avvolgeva le vicende dei protagonisti o il casto erotismo che vi era nel manga. Tutto sacrificato in favore di una cronologica rassegna di situazioni, attinte dal lavoro di Go Nagai e messe assieme in una sterile sequenza, piatta e priva di ritmo. L’approccio di Devilman – the movie è stato opposto a quello del manga: quest’ultimo guardava a suggestioni del passato, mentre il film ha chiaramente una visione "modernista", mettendo in scena un Giappone quasi fantascientifico. Ridicola la sostituzione della maschera di pietra, la quale narrava a chi la indossasse la storia dei demoni, con un visore futuristico. Inoltre questa modernizzazione la si può notare anche nella scena dell’assalto di casa Makimura, dove una folla invasata si appresta a fare irruzione credendo che al loro interno vi sia la presenza di alcuni demoni. Nell’opera di Go Nagai tale vicenda era una di quelle più suggestive di tutto il fumetto e richiamava, intelligentemente, la caccia alle streghe effettuata nei secoli scorsi, con la folla che attaccava l’abitazione brandendo bastoni con l’estremità avvolta dalle fiamme, nel film sostituite da torce elettriche, e terminando l’assalto con un rogo purificatore. Cambiamenti che ai più possono anche sembrare insignificanti ma che comunque corrompono e rovinano completamente l’atmosfera originale del fumetto. Cinematograficamente mi verrebbe da paragonare questo mutamento di atmosfera allo shock che ebbi passando da i due Batman di Tim Burton ai due di Joel Schumacher.
Veniamo ora alla realizzazione tecnica. Essa è sicuramente imbarazzante come tutti gli altri aspetti della pellicola. Non riesco proprio a spiegarmi come Devilman – the movie possa aver vinto il premio per i migliori effetti speciali… tale scelta non ha veramente senso e chiunque abbia visto il film non può che non essere d’accordo con il sottoscritto. Dopo la visione non si può non avere una sensazione di fastidio data soprattutto dalla consapevolezza di aver assistito ad un qualcosa che a mala pena può competere con gli standard (bassi) di un prodotto televisivo mediocre… mediocre perché i telefilm –i vari Lost, Prison Break ecc… – di adesso sono molto meglio curati tecnicamente di questo letale – per chi lo vede – jappo-movie, fidatevi. Nel lavoro di Hiroyuki Nasu si respira una imbarazzante atmosfera di dozzinalità e incapacità che difficilmente mi è capitato di riscontrare in un prodotto non amatoriale: si deve poi dire, inoltre, che il film aveva un budget più che decoroso, il quale si aggirava intorno ai 10 milioni di $ che per una produzione realizzata praticamente tutta in animazioni in CGI non sono affatto pochi. L’errore principale sta proprio in questo massiccio utilizzo di mediocre computer grafica, utilizzata soprattutto in quelle scene dove appaiono i vari demoni… vi giuro che più di una volta ho avuto l’impressione di trovarmi davanti ad un videogame di vecchi generazione… esatto, perché quelli di nuova generazione sono troppo ben realizzati. Ma il culmine del trash involontario lo si raggiunge nello scontro finale tra Amon (Devilman) e Satana: mai visto niente di più aberrante. Non so se qualcuno di voi ha avuto la (s)fortuna di giocare ad uno dei due giochi tratti da “I cavalieri dello zodiaco” usciti, ormai qualche anno fa, su Playstation 2… comunque assistere allo scontro finale tra i due nemici/amici è come assistere ad uno dei duelli “uno contro uno” che si poteva effettuare in tale videogame: grafica dozzinale, con un sfondo che sembra fatto con Paint proprio ad essere gentili e con i due contendenti che volano per lo schermo lanciandosi colpi degni del peggiore Cavaliere di bronzo… veramente da rimanere senza parole. La ciliegina – avvelenata – sulla torta è la seguente: tutta questa grafica CGI, oltre ad essere pessima, crea un netto contrasto con le poche scene girate dal vivo eliminando così ogni possibilità di suspence e di immedesimazione nello spettatore che non può non avere l’impressione di trovarsi di fronte ad un baraccone “no sense”… e purtroppo così è. Preferisco evitare di commentare le scene in cui immagini dal vivo e grafica in CGI coesistono sullo schermo perché qui dovrei scadere nel turpiloquio più accesso. Solo una parola: atroce.
Torniamo ora a sparare a zero sul povero Hiroyuki Nasu. Il film manca di un qualsiasi nesso logico: si ha l’impressione di assistere ad una serie di situazioni estratte dal manga di Go Nagai, ma non solo… infatti vi è anche la presenza di scene estrapolate dall’anime tratto, sempre dal lavoro del maestro Nagai, nel 1978. Questo non sarebbe un male se non fosse che l’anime e il manga centrano tra di loro come il cavolo a merenda. Vi basti sapere che nell’anime non vi è nessun riferimento alla figura cardine di Ryu Asuke. La pellicola saltella qua e là come una cavalletta impazzita e proprio per questo non può che lasciare quesiti ad un pubblico che non conosce il capolavoro disegnato del 1972: l’origine dei demoni al regista sembra proprio non interessare, alcuni personaggi chiave vengono relegati a camei senza senso, e comunque tutta la vicenda ha un che di superficiale molto fastidioso. Per concludere in bellezza, la pellicola ha una durata allucinante: 116 minuti per un film che praticamente non racconta niente, converrete con me che sono veramente troppi.
Visto che, comunque, non c’è mai limite al peggio, fatemi lapidare ancora un po’ questo Devilman – the movie. A dare il colpo di grazia – non che ce ne fosse bisogno onestamente – a questa trasposizione cinematografica ci pensa il casting. Chi ha scelto gli attori principali o era ubriaco fino al midollo o era sotto effetto di funghi allucinogeni. Per i due ruoli principali, quello di Akira Fudo e Ryu Asuke vengono scritturati i due fratelli Izaki – chiiiiiiiiiiiiiiiiii??????? – famosissimi in tutto il Sol levante per essere i membri della boy band Flame... un po' come se in un film europeo ci metteressero i Tokyo Hotel insomma. Essi ringraziano i produttori per la fiducia con una interpretazione agghiacciante, fatta di espressioni corrucciate, adatta al massimo ad un videoclip musicale. Pessimo. Gli altri (veri) attori non si elevano dall’anonimato con interpretazioni senza infamia e senza lode.
Peccato una grande occasione persa di rendere giustizia ad un capolavoro assoluto. Chi vuole vederlo è avvisato… e a quei pochi – spero – che piacesse consiglio un’altra imbarazzante trasposizione da un fumetto questa volta americano: Spawn (Id., 1997) di Mark Dippè. Sotto a chi tocca. Conclusione: all’inferno.

martedì 26 gennaio 2010

H2ODIO (Hate 2 O, 2006) di Alex Infascelli

Partiamo subito dalla particolarità principale di questa pellicola: H2Odio (Hate 2 O, 2006) non è stato prodotto per essere distribuito al cinema, infatti il suo slogan di lancio al momento dell’uscita era «dal 3 maggio in nessun cinema». Il terzo lavoro del regista Alex Infascelli è stato realizzato in previsione di una sua futura uscita direttamente in edicola: il film realizzato in digitale a basso costo viene pensato solo per la distribuzione in dvd abbinata ad un noto settimanale ovvero L’espresso, formula questa che costituisce un’assoluta novità in Italia. Il regista interrogato su questa “anomalia” produttiva ha così giustificato la scelta: «Abbiamo avuto l'idea di evitare i normali canali di distribuzione perché la logica della sala cinematografica non rappresenta più il mio, il nostro, modo di vedere le cose. L'edicola oggi è il vero drugstore. Il solo posto dove si compra e si trova tutto. Dai libri ai giocattoli. Il salto dall'idea alla scelta del gruppo editoriale adatto a realizzarla è stato breve, direi automatica». Il regista romano prosegue la sua riflessione lanciando pesanti accuse al sistema produttivo del cinema italiano: «Fino ad oggi un film passava nelle sale, poi in TV ed in Home Video. Oggi questo ciclo non funziona più e quindi era ora di invertirlo. E io l’ho fatto, grazie al Gruppo Espresso. Ma per capire bene devo raccontare un po’ la mia storia. Il mio primo film l'ho fatto con Cecchi Gori, costi di produzione pazzeschi, promozione da star. Ora, il nostro sistema non permette ad un autore di essere veramente sé stesso, è tutto un marketing e marchi. Quando mi hanno chiamato per Il siero della vanità, con un cast notevole (Margherita Buy, Valerio Mastrandrea, Francesca Neri) volevano solo il mio nome e non il mio cinema. Io ed Ammaniti (autore della storia originale), bella coppia. Poi però ecco l'assurdo ibrido: hanno tarpato le ali sia a lui per la sceneggiatura che a me per la regia. Non mi hanno fatto essere quello che ero. Io cercavo un modo per staccarmi da questo meccanismo. Una sera al ristorante, arriva un ragazzo marocchino che vendeva film pirata ed ho cacciato un urlo: ecco, voglio farmi distribuire da lui! Dovevo solo trovare una strada legale. E la soluzione era proprio l'edicola, la vera piazza culturale italiana, il luogo di ritrovo, di scambio. Poi vedremo, probabilmente ci sarà un passaggio in sala. Ma la vera trovata è proprio questa». Forse Alex Infascelli è stato ispirato dalla scelta di Steven Soderbergh, il cui penultimo film, Bubble (Id., 2005) è uscito direttamente al cinema, in dvd e sulla televisione via cavo. Altro caso singolare fu quello di The Interpreter (Id., 2005), film con Nicole Kidman e Sean Penn – mica pizza e fichi… – che mentre era ancora in sala, poteva già essere visto sui telefonini della 3. A distanza di anni possiamo dire che questi singolari esempi non hanno avuto un gran riscontro, nonostante abbiano fatto parlare di sé, e rimangono alla fine solo dei casi isolati… comunque il regista romano non si può certo lamentare visto che la sua iniziativa ha avuto comunque un discreto successo commerciale, nonostante la mediocre qualità del prodotto.
Olivia parte con quattro sue amiche per trascorrere un breve periodo in uno splendido casale isolato su un'isola situata al centro del lago di Bolsena. Le ragazze hanno in programma di compiere un rito purificatore che comprende solo l’assunzione di acqua e non di cibo. Olivia è una ragazza molto dolce, ma nasconde un segreto: nel suo corpo custodisce una parte della sua gemella mai nata. La ragazza in un attimo di sconforto decide di estrarsi il dente selvaggiamente a mani nude. Da quel momento, prende il via una strana e terribile serie di omicidi...
Alex Infascelli è un giovane regista – classe 1967 – che ha dalla sua sicuramente una certa dose di talento – non molta però in effetti… – ma, soprattutto, una lunga gavetta internazionale: nel 1989 si trasferisce a Los Angeles dove inizia a lavorare prima come aiuto scenografo poi come aiuto regista di numerosi videoclip musicali. Il suo film d’esordio è Almost Blue (Id., 2000), pellicola grazie alla quale ha vinto i maggiori premi cinematografici italiani, il David di Donatello, il Nastro d’Argento e il Ciak d’oro. Tre anni dopo realizzerà il suo secondo lungometraggio, Il siero della verità (Id., 2003), e dopo ancora tre anni H2Odio.
Almost Blue, storia – tratta da un romanzo di Carlo Lucarelli – di un assassino seriale che si reincarna nelle sue vittime, non mi era dispiaciuto, ma questo H2Odio è stata una cocente delusione. La storia, pur non essendo originalissima, non è affatto male ma è, a mio avviso, sviluppata malissimo, inoltre non mi è piaciuta per niente la regia del regista romano: egli sembra più che altro attento a dimostrare le sue doti “tecniche” dimenticandosi di dare un ritmo adeguato alla pellicola, la quale si perde tra lunghe sequenze silenziose, rallenty e flashback continui. Alex Infascelli sembra completamente disinteressato a mettere in piedi una sceneggiatura decente e almeno in minima parte coerente, egli sembra improntare il suo lavoro su basi completamente estetiche, il che non è per forza sempre un male soprattutto quando a fare questo scelta è un regista dotato di talento e con uno stile molto personale, ma purtroppo non è questo il caso: H2Odio, in conclusione, non si distingue da un banale videoclip musicale. Il regista cerca di sviluppare un horror “psichedelico”, molto mtv style, partendo da un presupposto interessante: il film, infatti, parte dallo stupefacente caso della “Sindrome del gemello evanescente”. E qui apro una parentesi imprescindibile. La “Sindrome del gemello evanescente” si riferisce a gravidanze in cui all’inizio viene trovata una sacca gemellare, ma in seguito qualsiasi traccia di uno dei due gemelli scompare. Questo accade quando uno dei due feti muore prima dei tre mesi di gravidanza. Uno degli casi più strani del gemello che sparisce nell’utero è il “cannibalismo gemello” nel quale il gemello che sopravvive ingerisce o assorbe i resti del gemello morto. Adesso quello che onestamente non so è se è possibile ritrovare dei resti di tale gemello scomparso all’interno del proprio corpo come succede alla protagonista del film, la quale estrae dalla sua spalla un dente - ??? – che dovrebbe proprio appartenere alla sua gemella morta. Converrete con me che la questione di partenza è veramente intrigante, ma la pellicola nel suo proseguo si perde in un bicchiere d’acqua, puntando, anche a detta dello stesso autore, più che altro a mettere in primo piano ed a scandagliare il rapporto di odio/amore che vi è tra ogni donna e quindi anche tra amiche: ma a mio avviso sbaglia alla grande anche in questo. Le cinque protagoniste del film, fin dall’inizio, sembrano tutto fuorché amiche e se lo scopo del regista fosse stato quello di dimostrare l’ambiguo rapporto che c’è tra esseri di sesso femminile, soprattutto in una situazione stressante, forse non avrebbe dovuto calcare così la mano creando dei personaggi che sembrano delle macchiette, ad aumentare questo senso di “ridicolo involontario” ci mette uno zampino un doppiaggio veramente imbarazzante. Un altro errore dell’autore italiano è la caratterizzazione sempre delle cinque amiche: a parte la protagonista, le altre quattro ragazze sembrano tutte donne molto sicure di sé, sembrano donne finite, non alla ricerca di qualcosa, ognuna con un suo interesse, con un suo modo di vivere. Mentre la protagonista è la fragilità in persona. Troppo grande questa differenziazione per non destare un minimo sospetto su chi farà del male a chi, su chi alla fine impazzirà, anche se forse lo scopo del regista era quello di creare suspence non tanto sul chi, ma sul perchè. Ma anche in questo caso Infascelli a mio avviso “toppa” ancora: troppo presto introduce il tema del gemello evanescente e anche i vari indizi sparsi per tutto il film svelano troppo. Appare chiaro sin dai primi cinque minuti che Olivia farà a pezzi le altre quattro, solo che ciò avviene con un oculato colpo di scena telefonato proprio negli ultimi minuti del film stesso. In pratica assistiamo a circa ottanta minuti di finto climax e poi nulla.
Su molti siti ho letto che H2Odio è solo un esercizio di stile da parte di un giovane regista di talento, sinceramente non so cosa dire, anche se questo fosse vero… a mio parere il film non supera neanche questa prova: Alex Infascelli si comporta come se fosse un “artista”, come uno che non sta facendo un film ma un’opera di video-arte… alla fine però vi è una sola e sacrosanta verità… il risultato è risibile in ogni caso. Il regista romano riprende inquadrature a caso come per esempio quelle di un albero o di una vetrata o lo scoppiettio del fuoco, arrivando addirittura a sovrapporle senza un nesso logico. Indecifrabile. Forse l’autore con queste scelte stilistiche avrebbe voluto farci percepire il mutamento della realtà di cui sono vittime le protagoniste costrette dalla loro dieta a bere solo acqua per una settimana… può essere… ma la sensazione che si ha a vedere H2Odio è quello di un nulla sceneggiativo pasticciato dalle scelte di un regista che come scopo aveva quello di librare libero nell’aria grazie ad una scelta produttiva che non poteva tarpargli le ali. Alex Infascelli parlava, incautamente, di possibilità di capolavoro riferendosi a questo suo progetto liberale… forse non sa però che «nessuno ha mai creato un capolavoro guardando se stesso»… e un film più autocompiaciuto di questo io non l’ho proprio mai visto in vita mia. Stendiamo un velo pietoso che è meglio. Conclusione: idee annacquate.
PS: ultima notizia. Il film, pur essendo italiano e diretto da un regista italiano, è stato girato in inglese. Il motivo non lo so, certo è che questa non è stata un'idea felice, infatti il doppiaggio che ha subito la pellicola di Alex Infascelli penso sia uno dei peggiori della storia del cinema. Chi è causa del suo male, pianga se stesso... e Alex Infascelli, in questo caso, ne ha di motivi per piangere.

martedì 19 gennaio 2010

MYSTERIOUS SKIN (Id., 2004) di Gregg Araki

Gregg Araki è gay… anzi, ancora di più, Gregg Araki è un’icona gay… ma soprattutto Gregg Araki non è un semplice regista, egli è un artista… forse sconosciuto ai più… ma venerato da quei pochi che lo conoscono. Il regista nippo/losangelino nato nel 1959 si fa conoscere ed apprezzare nel 1992 con Totally Fucked Up (Id., 1992) road movie con protagonisti due giovani adolescenti gay, anche se la fama gli giunge solo tre anni dopo con Doom Generation (The Doom Generation, 1995), il film mostra l'incubo visionario di tre adolescenti attraverso un altro road movie, intriso di sangue morte e terrore. Scioccante è poi l'accostamento fra la furia omicida dei ragazzi e i torbidi intrecci sessuali… un triangolo amoroso etero(omo)sessuale rosso sangue mi verrebbe da dire. Questa pellicola è veramente un pugno nello stomaco dell’ignaro spettatore… a proposito di questo voglio raccontarvi un veloce aneddoto: quando lo vidi la priva volta lo stava trasmettendo raitre a notte fonda. Alla fine non ci capii veramente niente… volete sapere il perché? Il film è così violento ed disturbante che per poter essere mandato in onda in televisione esso è stato mutilato in maniera vergognosa… la pellicola di Gregg Araki in versione uncut durava circa 85 minuti, mentre quella trasmessa dalla nostra cara tv nazionale raggiungeva a malapena l’ora… praticamente un terzo del film fatto sparire nel nulla…
Questi due film fanno parte della trilogia “Teen Apocalypse”. Ultimo capitolo della trilogia è un mio personal cult, ovvero Ecstasy Generation (Nowhere, 1997), film, con sempre giovani protagonisti allo sbando, forse ancora più visionario dei precedenti, ma meno brutale e sconvolgente dove però non possono mancare lo stesso scene di violenza brutale e sesso controverso, che sono un po’ la caratteristica principale del regista americano. Ma i veri protagonisti della filmografia di Gregg Araki sono i “suoi” ragazzi disadattati, sempre sessualmente ambigui, confusi, vittime allo stesso modo di loro stessi e del mondo che li opprime, sempre pronti a qualsiasi esperienza extrasensoriale che li possa far credere, anche se solo per poco tempo, di essere liberi e felici… quelli che il “Village Voice” ha definito «the Arakians»: i “rebels without a cause della Lollapalooza Generation”. Ogni creatura forgiata da Araki ha le sfumature dell’Icona che, come tale, è destinata ad essere (oscuro) oggetto del desiderio: ecco allora la figura ricorrente di James Duvall, suo attore feticcio, con la sua carica di sensualità involontaria, con la sua lunga chioma, con il suo sguardo da cerbiatto smarrito. Consiglio vivamente la visione di Ecstasy Generation, film di non facile visione, ma a mio avviso imprescindibile per tutti coloro che, per i più disparati motivi, non considerino la vita sempre e solo una cosa meravigliosa: James Duvall come Icona-Pop di una generazione Avant-Pop, “mito” di una generazione di sconfitti che amano ma non sono mai amati, “mito” di una generazione – senza una vera guida – che vaga alla ricerca della felicità trovando solo infelicità, insomma “mito” di una generazione destinata a soffrire.
Il film che sto per prendere in analisi si intitola Mysterious Skin (Id., 2004) ed è il primo lavoro registico dell’autore nippo/losangelino che non proviene da una sua sceneggiatura originale. La sceneggiatura, elaborata comunque dal regista stesso, è tratta dall’omonimo romanzo scritto da Scott Heim che ha creato molto scandalo al momento della sua pubblicazione negli Stati Uniti.
Brian e Neil hanno 18 anni quando si incontrano: il primo ha cercato a lungo il secondo, convinto che questi potesse aiutarlo a sbrogliare la confusione che ha in testa riguardo a un episodio in comune nella loro infanzia. Brian aveva otto anni quando si ritrovò a casa col naso sanguinante, senza ricordare cosa fosse accaduto: da quel momento molte paure lo attanagliano, e si è convinto di essere stato rapito dagli alieni. Anche Neil, un teppistello scontroso che si prostituisce ripetutamente, ebbe a otto anni un incontro - che gli cambiò la vita - con l'allenatore della squadra di baseball...
Lupo cattivo, ladro di bambini, la figura del pedofilo al cinema è sempre stata spunto, o vittima, di enormi discussioni: argomento tra i più “castrati” e tra i più difficili da rappresentare sullo schermo, la pedofilia sta trovando spazio nel cinema altro, quello non hollywoodiano, quello non standardizzato o bloccato da canoni di (falso) moralismo.
Come avrete capito dalla breve sinossi del film, esso tratta lo scottante e difficile tema della violenta perpetrata ai danni dei bambini, ma Mysterious Skin non è solamente un film sulla pedofilia. Soprattutto perché non adotta il punto di vista dell’adulto, non ce lo spiega, ma ce lo mostra come lo vedono i piccoli e cioè non certo come un mostro. Araki guarda ai bambini e così facendo, scopre la loro curiosità nei confronti del sesso e del mondo, e lascia affiorare il loro narcisismo e la loro fragilità emotiva, l’inesauribile bisogno d’amore che li contraddistingue, la debolezza che li espone al ricatto dei più grandi. Gregg Araki attraverso un racconto di formazione ci racconta, a suo modo ovviamente, la vita di due ragazzini, ormai quasi adulti, vittime ad otto anni delle attenzioni del loro coach di baseball. E lo fa mettendoci dentro tutti i temi a lui cari come l’apocalisse e gli alieni. Inoltre il regista americano, come suo solito, prende lo sconcertante argomento di petto senza falsità o accomodamenti utili al solo scopo di far ingoiare più facilmente la pillola amaro allo spettatore. Egli non sembra interessato a trattare la pedofilia in maniera pedagogica, forse la maniera più semplice – ma anche semplicistica – di trattare un argomento scomodo, inoltre Araki, come detto in precedenza, non ci espone in nessun modo il punto di vista dello stupratore: l’allenatore di baseball sembra quasi una figura di contorno nella storia dei due giovani, anche se in fin dei conti è la (con)causa di tutto quello che succederà in seguito. Una causa lasciata ai margini però, infatti non si sa neanche che fine fa… sparisce e basta. Non è l’analizzare il perché egli fa questo o delle cause che hanno scaturito in lui questa perversione che interessano il regista: egli con un stile libero e selvaggio, in grado di far convivere provocazioni anti moraliste, traccia la figura del pedofilo non come reietto sociale, ma come catalizzatore delle inquietudini trasfigurate nel mito del rapimento alieno e perdute nell’oblio della memoria per Brian o come annunciatore della precoce e impietosa consapevolezza di una diversità fisica ed emotiva per Neil. Araki sceglie la strada più scomoda e diretta, egli è interessato ai giovanissimi protagonisti in quanto individui e non in quanto vittime: ci racconta come uno dei due bambini fosse sessualmente attratto dal proprio coach, vittima (in)consapevole di un “gioco” più grande di lui. In seguito ci spiega il diverso modo in cui due ragazzini reagiscono a ciò che hanno vissuto, lo elaborano sublimandolo in avventura fantastica e misteriosa o addensando in esso la massima e irripetibile felicità: anche nell’abuso può essere infatti innestato un trasporto pieno di passione, un atto di violenza “trasfigurato” in grado di fare sentire Neil l’essere più importante al mondo. Brian invece “trasforma” la violenza subita in un più fantasioso e accettabile rapimento alieno. Mysterious Skin si muove alla ricerca della dimensione personale che i due protagonisti hanno smarrito dopo l’evento, mostrandoci da una parte l’amorale esistenza marchettara e dall’altra l’alienazione de-sessuata con cui rispettivamente Neil e Brian hanno deciso di convivere. Il film di Araki si alterna tra la vita di strada di Neil, vissuta all’insegna della prostituzione, alla ingenua ricerca del suo coetaneo Brian, che tenta di ricostruire cosa gli accadde quella sera, guardando ossessivamente documentari sugli alieni e annotando con diligenza i suoi incubi notturni. Al presente, la pellicola intermezza anche flashback che appartengono al triste avvenimento del passato che accomuna i due protagonisti. Ad un certo punto del film Brian arriva alla soluzione: Neil è la chiave di tutto, Neil sa cos’è successo realmente. Neil, a differenza di Brian, è sia vittima che complice, ma mentre la storia si ricompone la sua corazza strafottente si incrina, la sua solo esteriore sicurezza lascia intravedere una disperazione sorda, un bisogno d’affetto mai colmato. Ciascuno dei due protagonisti si è tenuto dentro il dolore, la paura, lo sgomento, e per attutirli e imbavagliarli si è raccontato una bugia. Una bugia che ha portato le vite di entrambi in vicoli ciechi pericolosi, impedendo loro una scelta autentica, uno sviluppo sereno ed armonioso. Il finale in cui i due protagonisti si incontrano e in cui Brian finalmente scopre la cruda verità tanto agognata non è per niente consolatorio, anzi… vedere i due ragazzi abbracciati, da soli, rende bene quel senso di solitudine che li accomuna nonostante il loro carattere diverso, il loro modo diverso di avere reagito al nefasto evento e la loro vita completamente diversa.
Mysterious Skin pur trattando un argomento tanto serio e scomodo è caratterizzato da un’atmosfera da angosciante fiaba surreale ricreata anche dalla colonna sonora dove spiccano le note incantate dei Sigur Ros, alternative gruppo musicale finlandese.
Un film assolutamente da vedere in definitiva. E Gregg Araki è un Must. Punto e a capo. Conclusione: film spaziale.

martedì 12 gennaio 2010

L'ULTIMA CASA A SINISTRA (The Last House on the Left, 2009) di Dennis Iliadis.

Bentornati! Eccomi di ritorno dopo le – lunghe – vacanze natalizie in cui ho poltrito un po’ più del previsto. Ma adesso sono di nuovo pronto a ripartire con più entusiasmo di prima. Perciò benvenuti alla mia nuova recensione…
Eccoci finalmente al “Rape & Revenge”. Dopo circa una decina di recensioni, arrivo a toccare uno dei miei (sotto)generi preferiti sul quale potrei dilungarmi a scrivere per ore. Uno dei film più importanti di questo “malsano” genere cinematografico è sicuramente Non violentate Jennifer (I spit on Your Grave, 1978) di Meir Zarchi. Esso è un vero “nasty movie” x eccellenza... uno dei film più censurati della storia del cinema... il critico Roger Ebert, interpellato su tale pellicola, avrebbe dichiarato che esso è «il peggior film mai realizzato, fa star male, orribile ed eccessivo». Il lavoro cinematografico di Meir Zarchi è, assieme a L'ultima casa a sinistra (The Last House on The Left, 1972) di Wes Craven, uno dei capostipite del cosiddetto genere “Rape & Revenge” – violenza sessuale & vendetta – che andava molto in voga soprattutto negli anni settanta. Anche se il vero capostipite del “Rape & Revenge” è La fontana della vergine (Jungfrukallan, 1959) del maestro svedese Ingmar Bergman. Esso però ovviamente non ha niente a cui spartire con i suoi successori in fatto di violenza e sangue. Vi do questa notizia perché mi diverte molto questo fatto: un regista considerato tra i migliori di tutti i tempi ha dato vita – involontariamente – ad uno dei generi più esecrabili di tutta la storia del cinema, in cui la misoginia raggiunge, in molti casi, livelli altissimi. Ho citato apposta il film di Wes Craven perché, oltre ad essere un film cardine del suddetto genere, l’oggetto della mia recensione è proprio il suo remake realizzato nel 2009 ad opera di Dennis Iliadis, emergente regista greco che si è fatto conoscere al mondo con l’ottimo Hardcore (Id., 2004) inquietante storia di quattro prostitute adolescenti nell’Atene dei nostri giorni.
A proposito di remake, pare che Hollywood abbia deciso di puntare forte su una versione aggiornata e – naturalmente… – edulcorata del “Rape & Revenge”, infatti sono in arrivo i rifacimenti del già sopracitato Non violentate Jennifer e di Il mostro della strada di campagna (And Soon the Darkness, 1970) di Robert Fuest. Quest’ultimo da molti considerato, appunto, un rape & revenge movie, a mio avviso non lo è… ma tanto vale, perché in ogni caso è una pellicola da vedere. Sono onesto questa nuova ondata di pellicole “stupro e vendetta” non mi esalta per niente, nonostante io non sia contrario ai remake… come per gli altri sottogeneri estremi penso che ognuno di essi abbia avuto il suo tempo e il suo momento di gloria. Dovete sapere che il cinema estremo è – a mio parere – un mondo a parte rispetto al cinema “normale”: un cinema che molto spesso ha come unico scopo quello di scioccare lo spettatore, ma a volte, oltre al disgusto estetico che si porta sempre appresso, vi si può trovare anche una determinata critica sociale. L’ultima casa a sinistra, quello del 1972, era chiaramente influenzato dal caotico clima sociale che si respirava in quegli anni negli Stati Uniti: esso univa gli orrori della Manson Family a quelli della guerra del Vietnam. Così, velocemente, mi viene in mente anche il caso nostrano di Cannibal Holocaust (Id., 1980) di Ruggero Deodato, il quale attraverso una buona dose di shock visivi, alcuni dei quali anche moralmente discutibili come le varie uccisioni di veri animali, analizzava in maniera cruda ed interessante la società di quegli anni, scagliandosi contro soprattutto al mondo dei mass media. A proposito del film del regista romano, che senso avrebbe adesso come adesso far rifiorire, per esempio, il genere “cannibal movie” che era tanto di moda nel nostro paese negli anni settanta ed ottanta? Nessuno e lo stesso vale per il “Rape & Revenge”. Soprattutto perché standardizzare certi sottogeneri, passaggio questo indispensabile per renderli accessibili al pubblico del Main Stream, vorrebbe dire snaturarli e basta… passatemi l’esempio un po’ insulso: un giorno uno si sveglia è decide di rendere i film pornografici fruibili attraverso normali sale cinematografiche. Cosa si dovrebbe fare? Eliminare tutte le scene di sesso reale ovvero le penetrazioni, eliminare tutte le inquadrature di membri maschili sull’attenti ecc… e alla fine cosa rimane? Un film soft core al massimo, di certo non una pellicola pornografica. Che senso ha? Nessuno. Nonostante questo devo dire che il film del regista greco mi è piaciuto abbastanza, ma vi prego non chiamatelo “Rape & Revenge”…
Veniamo al film…
I Collingwood si recano alla loro casa sul lago per le vacanze. Poco dopo il loro arrivo, la figlia Mari va in città a trovare la sua amica Paige. Qui le due ragazze incontrano Justin, che le invita nella sua camera d'albergo per fumare un po' d'erba. Mentre i tre si stanno rilassando, irrompono nella stanza Krug, padre di Justin, Francis e Sadie. Per Mari e Paige è l'inizio di un incubo, fatto di stupri, umiliazioni e violenze.
Ecco il rifacimento “poco rape e molto revenge” de L’ultima casa a sinistra pellicola epocale diretta da uno dei maestri del “new horror” ovvero Wes Craven autore di vere chicche come Le colline hanno gli occhi (The Hills Have the Eyes, 1977), Nightmare – dal profondo della notte (A Nightmare on Elm Street, 1984) e Scream (Id., 1996). Cosa è rimasto della carica eversiva del film originale? Poco niente. La parola d’ordine degli sceneggiatori è stata quella di smussare la pellicola originale di ogni suo elemento trasgressivo e disturbante rendendo così il remake fruibile ad un brufoloso pubblico da multisala abituato a ben meno shock visivi. La prima parte ad essere stata annacquata – e non potrebbe essere altrimenti – è la scena dello stupro, la quale si riduce a pochi minuti di violento amplesso che potrebbe scioccare i più suscettibili, ma che non è neanche minimamente paragonabile alla corrispettiva presente nel film del 1972. E questa non è una differenza da poco, perché il punto di forza del genere “Rape & Revenge” è sempre stato l’insostenibile durata delle scene di violenza – sessuale e non – di cui sono vittime le sfortunate protagoniste: stupri che durano più di mezz’ora, torture fisiche e psicologiche di ogni tipo occupavano praticamente quasi la totalità della durata del film, mentre la successiva vendetta era assai molto più veloce e indolore. In questo remake – ma sono pronto a scommettere quello che volete che anche nei prossimi rifacimenti prima accennati sarà così - invece è l’esatto contrario, ossia grande spazio alla meno moralmente problematica vendetta, a discapito delle scene di violenza sessuale, le quali potrebbero creare non pochi problemi con la commissione di censura. Comunque anche la vendetta dei Collingwood è stata diluita in maniera evidente. Per diluita, intendo che oltre a durare molto di più che nel film di Wes Craven anch’essa è molto meno cruenta: nessuno dei fan della pellicola originale si aspetti di ritrovare, in questo remake, la “cara” sig.ra Collingwood evirare a morsi uno degli aggressori. Situazione tra l’altro abbastanza frequente in questo genere di prodotti cinematografici: in Non violentate Jennifer, per esempio, ad uno degli stupratori viene tagliato di netto il membro con un coltellaccio da cucina… Lorena Bobbitt docet, insomma. Tra l’altro una differenza che non mi è piaciuta è la diversa rappresentazione “morale” di tale vendetta: nel film del 1972, prima di tutto essa era molto veloce e feroce frutto di una famiglia che reagiva in maniera inaspettatamente violenta ai soprusi ricevuti; mentre nella pellicola del 2009, essa è molto più lenta e ragionata. Mentre nell’originale la famiglia si trovava quasi costretta a reagire in tale modo, nel rifacimento la “stessa” famiglia capisce cosa sia successo realmente, questo soprattutto perché la figlia non è morta come nella pellicola di Wes Craven, ma nonostante questo non vaglia nessun’altra opzione se non farsi giustizia da sé.
Per concludere, vorrei analizzare la nuova rappresentazione dei protagonisti. I “cattivi” sono troppo normalizzati a mio avviso: Krug e soci nell’originale erano psicopatici malati che provavano piacere a fare male fisico agli altri: come esempio si potrebbe citare la scena in cui Krug incide con un rasoio il suo nome sul petto di una delle due sfortunate protagoniste. Mentre i corrispettivi moderni non hanno la stessa carica eversiva: sono normalissimi fuorilegge che agiscono inizialmente solo per la paura di essere scoperti, essendo Krug appena fuggito di prigione. Anche le interpretazioni, alla fine, risultano senza infamia e senza lode, di certo l’interpretazione completamente “fuori dalle righe” di David Hess nella parte di Krug è di un’altra categoria. Tra l’altro l’attore americano sarebbe rimasto intrappolato per sempre in tale ruolo, ripetendolo a vita in film mediocri come La casa sperduta nel parco (Id., 1980) di Ruggero Deodato. I “buoni” invece mi sono piaciuti, a partire dalla figlia protagonista. I genitori riescono a rendere bene l’idea di quale tragedia stiano vivendo, anche se la loro trasformazione in “giustizieri della notte” è eccessiva e priva di quella sensazione di rimorso che una tale scelta dovrebbe causare: “ok, ci hanno violentato la figlia… che facciamo? Li uccidiamo? Si, va bene”… troppo veloce, troppo semplicistico.
Comunque la pellicola di Dennis Iliadis è un thriller/horror sufficiente che si lascia apprezzare per le molte scene splatter, anche se tutto sommato la tensione latita. I pregi maggiori del remake rispetto all’originale sono tutti da attribuire al molto più elevato budget stanziato per la sua buona riuscita – il film di Wes Craven venne realizzato con la miseria di 90.000 $ - che permette una realizzazione tecnica e scenica nettamente superiore al film del 1972. Se volete seguire il mio consiglio, virate sulla pellicola più datata, che sicuramente paga una realizzazione approssimativa e il passare degli anni, ma che comunque non ha perso nulla della sua carica eversiva. Ma se volete veramente vederlo ricordatevi ciò: “To avoid fainting keep repeating, it’s only a movie… only a movie… only a movie… only a movie…”.
Ultima notizia di servizio, L’ultima casa a sinistra avrebbe dovuto fare la sua comparsa sugli schermi cinematografici l’estate scorsa, ma la Universal intelligentemente ha deciso in seguito di bypassare il grande schermo e di farlo uscire direttamente in dvd: il motivo? La commissione di censura italiana voleva bollare la pellicola con un bel V.M. 18, il quale avrebbe stroncato chiaramente ogni possibilità di un buon risultato al botteghino. Credo che tale divieto sia veramente eccessivo e che sia frutto solo della situazione che si sta vivendo in Italia negli ultimi anni dove sempre più donne sono vittime di abusi sessuali. Il sonno della ragione genera mostri purtroppo… Conclusione: vino annacquato.